Do less with more

30/03/2016 / Comments (0)

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Viviamo un’epoca convulsa, tempi difficili da decifrare e interpretare, ricchi di opportunità e incognite. Viviamo, per dirla alla cinese, in tempi interessanti. Anche le parole cambiano significato, o meglio, si caricano di nuovi desideri, sfumature e bisogni. Abbiamo bisogno di una nuova grammatica per leggere la contemporaneità, per restituirle un significato e, contestualmente, per definire il nostro posto nel mondo. Il linguaggio della Politica è in quest’ottica emblematico: Destra, Sinistra, riformismo, socialismo, liberalismo sono sempre più simulacri vuoti, riempiti in maniera spesso contraddittoria da vecchie e nuove forze sempre rappresentative, sempre meno collegate ai processi profondi che trasformano e informano la nostra società. Poi ci sono le città. Le città che non aspettano convegni di politologi per affrontare le urgenze e le piccole, grandi emergenze quotidiane. Città che devono essere amministrate, giorno dopo giorno ma che necessitano, per affrontare le sfide del presente e del futuro, di una visione e di una strategia di medio periodo convincente e condivisa. Più facile a dirsi che a farsi: la crisi della politica, o meglio la crisi dei partiti tradizionali, che in Italia dura dalla nascita della Seconda Repubblica, ha svuotato i processi partecipativi, togliendo legittimazione alle politiche pubbliche. La crisi economica e la crisi di rappresentanza dei corpi intermedi hanno poi fatto il resto “regalandoci” una percezione dell’arena pubblica  lontanissima da quella di luogo deputato alla ricerca del bene comune.
Tutto male, dunque? Neanche per idea. Le trasformazioni tecnologiche, culturali ed economiche degli ultimi anni hanno fatto emergere nuovi bisogni e nuove progettualità, profondamente politiche ma anche lontanissime dal linguaggio e dai rituali della tradizione novecentesca. Istanze e pratiche in molti casi ibride che trovano nelle città, in particolare nelle grandi città metropolitane, il terreno ideale su cui germogliare e consolidarsi, ma che ancora stentano a farsi riconoscere e a trovare un’interlocuzione con gli altri attori, istituzionali e non, del territorio. Nuove forme e nuove pratiche che tornano a riempire di significato parole come solidarietà, lavoro, riformismo, condivisione e collaborazione, ma che necessitano di un codice, di un linguaggio nuovo per trovare piena agibilità nello spazio pubblico e per instaurare una dialettica capace di accoglierle e valorizzarle. In quest’ottica le città rappresentano, rectius possono rappresentare, il milieu ideale, il contesto più adatto per sperimentare nuove forme di interlocuzione e di confronto. E’ nostra convinzione che le Amministrazioni saranno sempre più giudicate dalla loro capacità di trovare il modo di valorizzare e promuovere forme virtuose e inedite di collaborazione tra organizzazioni profit e no profit, formali e informali, partner pubblici e privati. Do more with less è stato il monito che l’OCSE ha lanciato ai governi europei all’indomani della Crisi, ma la realtà, almeno in contesti ricchi di capitale umano e asset tangibili e intangibili come Milano, è l’opposto: Do  less (but better) with more. Dove il More è rappresentato dalla sovrabbondanza di informazioni e connessioni che le tecnologie ci offrono (e dai margini di possibilità che i bisogni espressi e latenti garantiscono) e il less è la capacità dell’ente di concentrare la propria azione in ambiti davvero capaci di generare valore aggiunto per la comunità (con una sorta di approccio “lean”).
Per farlo avremo bisogno di attivare, abilitare le migliaia di intelligenze che abitano le nostre città, in primo luogo quel 15% di giovani che anche nella capitale economica d’Italia non studia né lavora. Ma dovremo anche guardare a quel vasto segmento di persone, i seniores ad esempio, che sebbene formalmente fuori dal Mercato del lavoro, sono ancora nella condizione di contribuire positivamente allo sviluppo e alla crescita di una comunità. Avremmo bisogno cioè di includere persone, organizzazioni, intelligenze e talenti. Guardare all’inclusione non più con gli occhi delle politiche sociali, ma con quelli delle politiche di sviluppo. Dove nasce infatti l’innovazione oggi giorno? Nelle comunità creative di cui parlano Manzini e Meroni, nella frontiera delle urgenze sociali, nelle improbabili, eppure concretissime, partnership di cui ci parla Tommaso Vitale nel suo post (che potete leggere qui) , e nelle ibridazioni di modelli di business che cercano, e spesso trovano, equilibri di sostenibilità impensabili.
Ecco, quando penso all’associazione Innovare per Includere penso a tutto questo. Penso a un luogo ibrido dove rappresentati dell’Amministrazione, cittadini attivi, imprenditori, freelance si sporcano le mani, condividono competenze e prospettive e provano a imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. Penso ad una sorta di template personalizzabile che possa trovare anche in altri contesti urbani, piccoli o grandi che siano, la possibilità di applicazione. Penso che includere sia il mezzo migliore per innovare, ma sarei felice di vedere anche l’opposto. In bocca al lupo!

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