LA STORIA DI GAIL E MARTA: DA DOVE NASCONO LE DISUGUAGLIANZE

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14/12/2018 / Comments (0)

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Le città ed i paradossi del capitalismo contemporaneo. Suggerimenti dal “Decent Work” Forum di Seoul.

 

La storia di due donne americane, Gail e Marta, riportata da Neil Irvin sul New York Times nel settembre 2017 ha aperto a Seoul i lavori del Forum Internazionale delle città che si battono per migliorare le condizioni di lavoro dei propri concittadini sotto la fortunata formula di “Decent Work” (che potremmo tradurre con “lavoro dignitoso”) introdotta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ILO.

A rispolverare l’illuminante inchiesta di Irvin è stato il prof. David Weil, a lungo consulente dell’amministrazione Obama, nel suo intervento di apertura. Gail Evan e Marta Ramos hanno una cosa in comune, racconta Irvin: entrambe hanno lavorato come addette alle pulizie per una delle più innovative e redditive aziende degli Stati Uniti. La prima è stata assunta da Kodak a Rochester agli inizi degli anni 80, la seconda è addetta alle pulizie presso gli uffici di Apple, a Cupertino, oggi. Considerata l’inflazione le due donne guadagnano la stessa paga oraria, ma – ci avverte Irvin – le similitudini finiscono qui. Perché mentre Gail faceva parte dei 60.000 lavoratori impiegati direttamente da Kodak nell’area di Rochester, Marta lavora per un’impresa appaltatrice esterna a Google, quest’ultima – da gigante dell’economia mondiale qual’è – impiega solo 23.000 addetti diretti. La prima poteva contare su ferie, malattie, benefit aziendali ed un percorso di carriera interno alla azienda. La seconda su niente di tutto questo. L’integrazione verticale di diverse funzioni (compresa guardiania e pulizie) in aziende di stampo “fordista” come Kodak ha fatto sì che Gail, che ha continuato a studiare mentre lavorava grazie a leggi e accordi collettivi sul diritto alla studio, potesse gradualmente scalare la gerarchia dell’azienda man mano che la sua formazione lo ha consentito. Fino a diventarne dirigente per una funzione centrale del business di Kodak. La segmentazione e l’esternalizzazione di molte funzioni tipica dei grandi colossi hi tech dei nostri giorni, che contano profitti stellari e pochissimi addetti diretti, fa sì che la possibilità di crescita di carriera e retribuzione di Marta, all’interno della sua azienda, sia invece vicina allo zero: da addetta semplice potrà al massimo aspirare a diventare il capo della sua squadra di pulizie.

La parabola di queste sue donne spiega la profonda crisi delle classi medie nei paesi a capitalismo avanzato, dove domina quella che Irvin chiama “contracting economy”. Aziende come Kodak negli anni ottanta fornivano lavoro a migliaia di ingegneri e tecnici altamente specializzati, ma molti di più erano i lavoratori con contenuti esecutivi che hanno popolato per due generazioni un ceto medio urbano a Rochester e in diverse altre città occidentali. Quel ceto medio che è profondamente minacciato dalla crescita delle disuguaglianze frutto soprattutto di una diversa organizzazione del lavoro nel capitalismo contemporaneo.

È del tutto evidente che il guadagno di profitti derivante da questa segmentazione e scomposizione delle funzioni aziendali si scarica sulla collettività in termini di costi sociali, aumento delle disuguaglianze, mancata mobilità sociale e generale senso di insicurezza e incertezza degli ex ceti medi. Ne vediamo gli effetti anche sulla coesione sociale e nei comportamenti di voto dei cittadini in crisi di reddito e anche di status, di quel ruolo e funzione sociale che il lavoro “dignitoso” restituisce agli individui. E nè sono sufficienti a compensare i costi sociali delle disuguaglianze crescenti la capitalizzazione finanziare dei giganti dell’economia mondiale, i dividendi per gli azionisti, il censimento sugli addetti “indiretti”, gli sforzi degli Stati per imporre tassazioni adeguate e per costruire schemi di protezione dei lavoratori tra un impiego e l’altro. Per alcuni decenni abbiamo pensato di poter aggirare il problema spostando l’attenzione dai rapporti di produzione e dall’organizzazione del lavoro per puntarla sul mercato, sostituendo al concetto di occupazione quello assai ambiguo di “occupabilità”. Ma la realtà ha la testa dura e la storia di Gail e Marta sta lì a ricordarcelo.

In questo scenario in cui gli Stati hanno gradualmente rinunciato a intervenire nei rapporti tra capitale e lavoro, le città hanno deciso di prendersi la scena proponendo un’inedita alleanza: “Decent Work Cities”. Lo scopo è quello di condividere pratiche e politiche territoriali a tutela del lavoro dignitoso come il “Freelance isn’t free Act” di New York, ma anche di dettare un’agenda comune agli Stati e agli organismi internazionali. Non è la prima volta che succede: si pensi al ruolo che alcuni sindaci del mondo stanno giocando sul contrasto ai cambiamenti climatici attraverso la rete C40, o alla presa di posizione comune formulata lo scorso mese a Barcellona sulle distorsioni dell’economia digitale.

In questo caso è stato il sindaco di Seoul, Park, già promotore di tante politiche originali su innovazione sociale, sharing economy e tecnologie dal volto umano a prendere l’iniziativa. Milano insieme a tante altre città come New York, Vienna, Los Angeles ma anche Colombo e Taipei ha risposto alla chiamata. È nelle aree urbane che si manifestano i paradossi più grandi dell’economia globalizzata ed è nelle città che hanno sede i giganti del capitalismo contemporaneo: organizzare una risposta comune delle città può tornare utile anche agli Stati.

Cristina Tajani

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